BAMBINI DEPRESSI E GENITORI ALL’INFERNO – Storie di quotidiana psicoanalisi

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Prefazione a cura di Suzanne Maiello​

Il libro di Bisagni si rivolge ad un ‘pubblico adulto’, nel senso più profondo della parola. L’adultus inteso letteralmente come colui che è cresciuto, si è rafforzato strada facendo e ha raggiunto una sufficiente forza interna, una sufficiente capienza contenitiva degli stati mentali propri e altrui, un equilibrio tanto stabile tra funzione materna e paterna da poter guardare in faccia, visitare, accogliere, tollerare anche l’inferno. Un inferno che spazia dalla piccola quotidiana tragedia del bimbo non visto dai grandi nei suoi bisogni emotivi primari, fino all’orrore incontrato dal bambino che va a chiamare il padre per il pranzo e lo trova impiccato nel suo ufficio.

Questo libro è un opera coraggiosa. L’autore dice pane al pane. Morte a morte. E’ un libro che toglie veli pietosi, che scopre e non copre, anche quando vedere significa giungere al confine del sopportabile. La morte è il tema di fondo che attraversa l’opera intera. Non già la morte organica che segna naturalmente il termine della vita, bensì la morte procurata, con agiti o in fantasia, con crudeltà perversa o per assenza mentale. Il libro descrive l’insidia di tutte le forme del mortifero nella mente e cerca di penetrare nelle tenebre che coprono ogni cosa quando viene uccisa la capacità di pensare e di sognare.

Bisagni parla degli effetti mortiferi del trauma, riflette sul collasso di tutte le dimensioni dell’apparato mentale che ne consegue, spazio, tempo, memoria. Collasso che fa precipitare la vittima in uno stato di quasi-morte, nel quale non esiste più neanche la paura, perché ‘per avere paura bisogna essere vivi, e non so se ero vivo’. Ma l’autore descrive anche i microtraumi quotidiani dei bambini figli di genitori essi stessi bambini orfani, che non possono fare altro che ripetere, in mancanza di oggetti interni genitoriali vivi, l’esperienza di deprivazione con i loro figli. Pagine di struggente dolore non vissuto e non vivibile, nei figli come nei genitori, dolore non accolto che si congela e nutre la catena della trasmissione transgenerazionale del mortifero. Viene esaminata con attenzione la qualità emotiva delle relazioni interpersonali di questi bambini con le figure primarie, insieme al modo in cui esse si sono sedimentate nella qualità dei legami tra i loro oggetti interni. Il bambino non visto che si trasforma in bambino-cosa è un bambino che si sente morto. La perdita del bisogno della relazione con l’altro e la rinuncia al desiderio di essere visto, permette agli elementi mortiferi di espandersi, e allapseudità e alla menzogna (dal –K al –L al –H bioniano) di prendere il sopravvento.

Storie di quotidiana psicoanalisi, questo il sottotitolo del libro. Sono anche storie di quotidiana genitorialità. Bisagni descrive non solo l’insidia dei piccoli segni di sofferenza nel quotidiano che, non visti, formano difese che diventano abitudine, struttura, sistema, nel mondo interno del bambino come in quello dei suoi genitori, nella famiglia come nella dimensione sociale. Uno dei meriti del libro di uno psicoanalista con una doppia formazione, analista di adulti e di bambini, risiede nella sua capacità di osservare con particolare acume la scena contemporaneamente dai due vertici, quello del bambino e quello dell’adulto, e di illuminare entrambi i poli delle relazioni, sia esterne che interne, non negando mai il ruolo fondamentale dei genitori nella crescita emotiva del bambino. E lo fa senza mai essere critico o colpevolizzante. Se cerchiamo bene, troveremo sempre da qualche parte, nascosto nell’oggetto mortifero o nella relazione mortifera di quel genitore, un altro bambino non visto, la cui sofferenza è stata ignorata nel corso della sua storia.

Le concezioni teoriche, sostegni irrinunciabili nel lavoro clinico, dovrebbero, postula Bisagni, essere sempre delle ‘risorse plastiche e modificabili’, pur mantenendo ‘una sufficiente quota di coerenza epistemologica’. Al logos che aspira al potere e alla dominazione si sostituisca la ricerca della verità degli affetti intimi. Il luogo della ricerca è e rimane esclusivamente il qui ed ora della seduta, e l’etica psicoanalitica risiede nell’ ascolto personale e insaturo che offre spazio al divenire, unico e irripetibile, dell’incontro tra quell’analista e quel paziente.

Sul versante della tecnica, Bisagni afferma l’irrinunciabilità di un atteggiamento rigorosamente psicoanalitico, ossia della centraliltà di un setting esterno e interno coerente, affidabile, costante. La saldezza del setting, la ‘ritualità ritmica del contenitore psicoanalitico’ sono la conditio sine qua non per l’emergere del nuovo, del sorprendente. Molto belle sono le pagine su transfert e controtransfert, sull’interpretazione descritta come l’espressione della capacità di ‘ri-sognare il sogno’, oppure, aggiungerei, intesa come una specie di contro-canto lieve e aperto, che rende possibile l’avvicinarsi a ciò che è ancora chiuso nelle tenebre della paura. ‘Come sempre’, scrive Bisagni, ‘la difficoltà è quella di mantenere insaturo, vivo e arioso lo spazio del simbolico che consenta la procreatività della mente emergente. La difficoltà di affermare la qualità dell’insaturo rispetto alla immobilità del rimuginare ossessivo’ . Anche le interpretazioni di routine corrono questo rischio. No dunque alla rigidità, all’ubbidienza, al pedissequo, e sì invece ad un rigore senza cedimenti, prerequisito per la libertà del pensiero nell’incontro con il paziente.

L’idea del vivo e arioso insaturo attraversa il libro come un leitmotiv, come il contraltare del mortifero che tenta di nascondere, controllare, immobilizzare. L’insaturo della rêverie, della disposizione all’ascolto, della domanda che non si aspetta una risposta né immediata né diretta, ma che ha valore per il solo fatto di venir posta, l’insaturo della capacità negativa che tollera l’incertezza e rimane vicino al mortifero ancora indicibile. Il portatore del mortifero non-pensiero necessita di questa vicinanza, di questa paziente, ma attiva attesa per poterlo un giorno lasciar emergere, per pensare e condividere i suoi contenuti con un nuovo altro-da-sé.

In quel principio dell’insaturo sta la speranza, l’essenza di tutto ciò che è emotivamente e mentalmente vivo. Bambini depressi e genitori all’inferno si conclude su una nota di speranza, un’apertura sulla vita per il lettore che nel percorso del libro ha attraversato più di un inferno.

Sono i racconti di due esperienze di osservazione psicoanalitica secondo il metodo di Esther Bick1 (1964), una Infant Observation e una Young Child Observation. Una bambina neonata, chiusa nella bambagia emotiva di una indifferenziazione fusionale con la figura materna riesce, malgrado l’idealizzazione difensiva dell’unione primordiale, ad accedere, sotto lo sguardo dell’osservatore attento, all’idea di un terzo ‘in statu nascendi’, ad una ‘alterità endogena’, ossia, direi, a fare l’esperienza di una prima realizzazione della preconcezione dell’incontro con un altro-da-sé, e di varcare la soglia della prigione della diade ermeticamente chiusa.

Un bambino di due anni, alla ricerca della sua identità maschile, resiste alle pressioni che vorrebbero vederlo adeguarsi ai modelli di ruolo proposti dalla famiglia patriarcale e trova, con una forza creativa e una coerenza commovente, altre vie, tutte sue, per cercare di integrare elementi emotivi più teneri, di cui ha bisogno per poter esprimere aspetti identitari che gli corrispondono di più.

Il lettore segue lo sviluppo di questi due bambini quasi incredulo. Pur piccolissimi, essi sembrano attingere a delle risorse inaspettate per crescere. Entrambi hanno modulato e trasformato la qualità degli oggetti e delle relazioni proposte dal mondo esterno seguendo il loro bisogno vitale più profondo. Entrambi hanno saputo far fruttare l’insaturo, hanno osato andare oltre per diventare, precocissimamente, co-creatori del loro percorso.

1 Bick, E. (1964) Notes on Infant Observation in Psychoanalytic Training.International Journal of Psychoanalysis, vol.45